I doni della missione

Padre Marco che ha lavorato molti anni nel MEG, condivide la sua nuova esperienza a Scampia, come responsabile del centro di formazione Alberto Hurtado
L’opportunità di raccontare di me
Sono quasi due anni che faccio MEG solo in modo occasionale, perché l’anno scorso sono stato a Cuba 6 mesi per il “terz’anno” (l’ultima parte della formazione come gesuita), mentre quest’anno sono stato nominato responsabile del centro di formazione Alberto Hurtado, dovendo così lasciare il ruolo di Responsabile Regionale della Campania. Ecco perché ora mi fa molto piacere condividere quello che sto vivendo, in particolare nell’attuale periodo “sospeso” per il contenimento dell’epidemia. È come l’opportunità di raccontare di me alla mia famiglia di origine, in un periodo di lontananza forzata.

Vivere a Scampia: degrado urbano e calore umano

Vivo a Scampia da 5 anni. Vi assicuro, il mio primo impatto è stato di ritrovare qualcosa di casa. Infatti sono nato e cresciuto in un quartiere di periferia e, in fondo, tutte le periferie si assomigliano: degrado urbano e calore umano vi si intrecciano, a Napoli come a Monza. Calore. È uno dei miei primi ricordi: siamo in chiesa a preparare il presepe con alcune mamme e catechiste. Improvvisamente compare un caffè in bottigletta: è subito festa. Degrado. La prima pizza in pizzeria devo averla presa solo dopo alcuni mesi, fuori dal quartiere, perché a Scampia le uniche pizzerie sono da asporto. Me la offrono i ragazzi di una comunità MEG. Entriamo e mi raggiunge una sensazione di normalità. Scampia ti abitua all’assenza di queste cose semplici: una passeggiata lungo le vetrine tra la folla, un locale dal servizio e dall’arredo ben curato, una piazza dove incontrare amici e chiacchierare. Ora che ci penso, è una preparazione all’era del Covid: ci si riduce all’essenziale e forse anche a meno. Però in questa austerità scopri scorrere una vita più autentica.
Il Centro Hurtado: evangelizzare la società
Il Centro Hurtado è una realtà che espone alla complessità della vita. Certo, vi si lavora molto anche con i giovani, ma con un approccio diverso che nel MEG. Non è tanto un luogo di evangelizzazione, per così dire, delle persone, ma piuttosto della società. Concretamente, si offre animazione culturale ad un quartiere che ne è povero, tramite una biblioteca, un’orchestra giovanile, un doposcuola, conferenze culturali o d’attualità. Inoltre si propone orientamento e formazione professionale a ragazzi in dispersione scolastica. Infine, si fa un esperimento sociale: il Centro è anche una bottega artigiana che produce localmente e vende sul territorio nazionale, facendo ponte con zone più ricche della città e del Paese. Farsi prossimi, sanare, riconciliare, includere, festeggiare: sono azioni che abbiamo imparato dal Signore Gesù e che vogliamo che animino anche l’azione sociale del nostro Centro.


Tempo da Covid: un’umile Pentecoste


Con l’inizio dell’era Covid, una buona parte del mio tempo e di quello delle persone intorno a me si è reindirizzata al sostegno alimentare delle famiglie indigenti. Il blocco degli spostamenti, infatti, ha lasciato in grande crisi un quartiere che vive per lo più di economia informale. La nostra chiesa era già abituata ad assistere una cinquantina di famiglie napoletane e rom, con la fornitura di generi alimentari e medicine. Le restrizioni della quarantena hanno però messo fuori gioco i volontari più maturi, mentre le richieste di assistenza crescevano. Contemporaneamente, presso il vicino centro delle suore della Provvidenza, padre Eraldo, il confratello che si occupava dei ragazzi rom, si è reso conto che sarebbe occorsa una distribuzione alimentare a tutte le famiglie del campo (un’ottantina in tutto). È interessante che, a partire dalla prima risposta a queste necessità emerse all’alba della quarantena, si sono aggregate poi tante altre forze. Sono aumentati i volontari: ho visto collaborare fianco a fianco religiosi, attivisti di sinistra e poliziotti, ASL e protezione civile, in una brigata variegata per inclinazioni, ideologie e temperamento. Sono arrivate molte donazioni, da famiglie del quartiere, da zone più agiate di Napoli e da tutta Italia, in liquidi o in prodotti alimentari e d’igiene. Si è potuto estendere, così, il numero delle persone assistite, toccando le 1.500 unità. Questa generosità spontanea ed umile mi è parsa una vera Pentecoste.
Un scuola di discernimento e fiducia nella Provvidenza
In questo periodo ho imparato molto da alcune persone del quartiere, in prima fila nella distribuzione alimentare (per lo più donne, ma c’è anche un giovane elettricista): occorre conoscere la famiglia, intuirne i bisogni e talvolta persino i gusti, tenere a bada con pazienza e fermezza gli assistiti più intemperanti che hanno sempre qualcosa da reclamare, quando non da minacciare. La cosa forse più importante è cogliere le necessità di famiglie che hanno vergogna a chiedere aiuto. È stata per me una scuola di discernimento, prudenza e delicatezza.
Altra lezione: i regali della Provvidenza. Alla vigilia di Pasqua arriva un pallet di dolci di ottima fattura: uova di cioccolato, colombe e pastiere da famose pasticcerie campane. Sono i regali che il Napoli calcio aveva previsto per i suoi sostenitori. La quarantena li ha fatti atterrare in periferia. Che farne? Si sono chiamate le famiglie dei bambini del catechismo, altri bambini hanno saputo e sono arrivati i genitori. Non è bastato ad esaurire i doni. La mattina della domenica di Pasqua nuovo giro di chiamate per consegnare quelli rimasti.
È proprio vero che ogni situazione è una chiamata del Signore alla missione. All’inizio può sembrare difficile, ma se uno si mette in gioco, finisce col ricevere più di quanto non dia.

Padre Marco Colò SJ