La bellezza di essere ospite

Barbara, della Comunità di Genova, racconta il suo servizio a San Marcellino
Il servizio come luogo di crescita
Mi chiamo Barbara, ho 29 anni, vivo a Genova con due coinquiline e lavoro come architetto in uno studio di progettazione.
Nella vita ho sempre fatto sport, in particolare gioco a calcio, e ho sempre frequentato realtà comunitarie: prima l’A.C.R. in parrocchia, poi il MEG, infine, attualmente, la CVX. Anche il servizio è stata una costante in questi anni: ho iniziato a metà del liceo in un doposcuola del centro storico, durante l’università sono stata Responsabile MEG e quando ho cominciato a lavorare ho curato la formazione dei Responsabili della comunità di Genova. Fino allo scorso anno facevo anche parte della comunità di Pietre Vive, che si propone di comunicare la spiritualità attraverso l’arte e dove il servizio consisteva nell’offrire visite guidate gratuite della bellissima Chiesa del Gesù di Genova.
Insomma, come dico sempre, avevo praticamente completato il “grande slam” delle proposte dei Gesuiti nella mia città! Fino a due anni fa, però, c’era una realtà alla quale non mi ero ancora mai avvicinata: San Marcellino, un’associazione laica, legata alla Compagnia di Gesù, che si dedica all’accoglienza delle persone senza dimora. La conoscevo da molto ma, pur avendone avuto l’occasione in precedenza, non mi ci ero mai avventurata come volontaria, intimorita dalla realtà che avrei potuto incontrare e dall’idea di non essere all’altezza.
Penso di essere cresciuta con e grazie al servizio: dieci anni fa, la sfida più grande era riuscire a far finire i compiti a due bambini; sette anni fa, è stato portare un gruppo di liceali a fare un campo estivo a Scampia; due anni più tardi, parlare a degli sconosciuti di Dio, attraverso la storia di una chiesa… Tutto questo era pian piano entrato a far parte della mia “comfort zone”. Ormai ero sicura delle mie capacità di organizzare, gestire, coinvolgere: sentivo che era il momento di imparare ad essere, in un certo senso, più… silenziosa, a partire dal servizio.

Poco da fare, molto da stare

La parola più adatta per descrivere San Marcellino è senza dubbio “accoglienza”. L’associazione si compone di diverse strutture che incontrano, accolgono e poi ospitano persone senza dimora: un centro d’ascolto diurno, due accoglienze notturne, alloggi assistiti, diversi laboratori e tre comunità per donne e uomini. All’interno di una delle comunità, “Il Ponte”, si svolge il mio servizio. Attraverso un percorso di accompagnamento, San Marcellino assiste persone che hanno spesso perso tutto – non solo in termini materiali, ma anche in termini di affetti e relazioni – a riprendere in mano la loro vita, soprattutto aiutandole a ritrovare fiducia e cura di loro stesse.
A questo punto, immagino che sorga spontaneo domandarsi cosa faccia io e, come me, ovviamente, molti altri volontari, durante il servizio. La mia risposta è che non faccio proprio niente! La comunità del Ponte è la comunità con il maggior grado di autonomia, abitata attualmente da cinque persone che la gestiscono in maniera quasi indipendente, occupandosi della spesa, delle pulizie, di cucinare… Molti di loro hanno anche piccole occupazioni, spesso in altre strutture dell’associazione. Chi abita le comunità di San Marcellino è chiamato “ospite” e questo mi piace molto, perché con questa parola si identifica sia chi viene ospitato che chi ospita. Ed è proprio questo che succede ogni quindici giorni: sono ospite a casa loro. Arrivo dopo il lavoro, trovo la cena pronta, vengo servita a tavola. Non mi è consentito nemmeno di sparecchiare. Figuriamoci lavare i piatti! Dopo cena si gioca a carte, si chiacchera, si guarda il telegiornale, si commenta cosa succede nel mondo.
In questo mio servizio c’è molto poco da fare, ma tantissimo da “stare”, che è la cosa che lo rende al contempo bello e difficile.
La componente difficile è abbastanza evidente, trattandosi dell’incontro con persone che, sulla carta, non hanno niente in comune con me: non l’età (potrebbero essere i miei genitori, alcuni anche i miei nonni), né soprattutto il vissuto. Percepire questa distanza, mi ha reso più difficile anche solo condividere una cena: era ben diverso dal trovarsi di fronte il gruppo di adolescenti del MEG, cresciuti nel mio stesso quartiere, con una vita, tutto sommato, serena e tranquilla.
La componente bella, invece, l’ho scoperta un lunedì, quando, ripassando il programma della giornata sulla mia organizzatissima agenda, arrivata a “ore 19: Ponte”, mi sono sentita proprio felice: felice di cenare con persone a cui sono affezionata, felice di poter raccontare cosa mi era successo nelle settimane passate, felice di farmi prendere in giro per come mi ero vestita, o per quanti goal avevo preso durante l’ultima partita. Felice, insomma, di avere poche cose da fare, ma persone con cui stare.