Parola di gatto

Mi chiamo Socrate. Lo so, lo so: è un nome altisonante per un gatto. Ma me l’ha dato un mio amico. Il mio migliore amico. E a me piace proprio per questo. Non mi intendo di filosofia, ma mi dicono che questo Socrate fosse un tipo in gamba. Ciò mi ha sempre dato la certezza che il mio amico trovasse un po’ speciale anche me. So di non esserlo: sono un gatto pezzato, bianco e nero, come ce ne sono tanti. Ma questo non ha mai avuto molta importanza, perché mi bastava sapere che per lui io ero il “suo” Socrate.
Mi piacciono molto le carezze. A voi? Ricevere carezze è un modo per sentire che l’altro ti vuole bene, e che te lo vuole fare sapere. Anche in questo il mio amico era insuperabile. A casa non stava tanto spesso, durante la giornata. Così, seduto vicino al termosifone, trascorrevo il mio tempo attendendo che tornasse. Riconoscevo da lontano il suo passo ritmato e a quel ritmo batteva anche il mio cuore, nell’attesa che la porta d’ingresso si socchiudesse e mi raggiungesse la sua voce allegra e affettuosa che mi cercava: “Socrate!”.


Mi lasciava accoccolare vicino a lui mentre studiava o ascoltava musica e, ogni tanto, allungava la mano per accarezzarmi lungo il dorso, o sotto il mento, chiamandomi ancora dolcemente per nome. In questo modo delicato e diretto, a me arrivava tutto il bene che lui mi voleva. E questo mi bastava per essere felice. È molto semplice la felicità di un gatto.
Poi, un giorno di estate, il mio amico non è più tornato. In casa ho sentito dire che l’avevano portato in chiesa per il funerale. Non sono esperto delle cose del mondo, ma sentendo quelle parole, ho capito che doveva essere successo qualcosa di doloroso. Mi sono venuti in mente i versi di una poetessa polacca, una certa Wislawa Szymborska, che ogni tanto il mio amico leggeva ad alta voce: “Morire, questo a un gatto non si fa…”, recitava . In quel momento quelle parole parevano calzarmi a pennello, perché mi sentivo abbandonato e così profondamente triste, senza avere la più pallida idea di dove avrei potuto ritrovare tutto il bene che avevo ricevuto e che sembrava, ora, irrimediabilmente perduto. Dove si spostavano di uomini quando morivano? Un indizio ce l’avevo: la chiesa! È lì che avevano detto di averlo portato…Così pensai di mettermi a cercare. Mi mancava troppo quella voce che chiamava il mio nome!
La Chiesa del mio quartiere si chiama San Saba e fino a quel giorno della scorsa estate non c’ero mai entrato. Era grande e vuota… La attraversai con una certa soggezione. Superai una porta, un lungo corridoio con due divani rossi e un grande cartellone colorato appeso alla parete che recitava: “Non c’è amore più grande di questo”. Già, -pensai – anche qui è arrivata la notizia che non c’è un amore più grande di quello che il mio amico aveva per me!
Da una porta chiusa arrivavano delle voci e così decisi di entrare. Fu sufficiente un “Miao!” perché le due signore che lavoravano lì mi aprissero e, immaginando che avessi fame, si diedero subito da fare per procurarmi del latte, mi riempiranno di carezze e di coccole ribattezzandomi da subito “Pedalino”, che qui a Roma significa “calzino”, per via delle mie quattro zampe bianche. Da quel giorno, tutti in parrocchia e nel quartiere hanno iniziato a chiamarmi e mi chiamano così. Lì il mio amico non c’era e nessuno sembrava conoscerlo, ma in quel posto avevo trovato qualcuno capace di farmi sentire un po’ meno solo. Tornai tutti giorni. Mi accucciavo su una sedia dell’ufficio e passavo così le mie mattinate, sperando che “lui” prima o poi tornasse, per potere ascoltare ancora una volta una voce che mi chiamasse per nome, con il mio vero nome.


Piano piano, facevo conoscenza di questi nuovi amici, imparavo a conoscerli – Giuliana, Benedetta e, insieme a loro, Andrea – e ascoltavo tutti i loro discorsi su una grande famiglia chiamata “MEG”. Godevo delle loro carezze e della loro compagnia. E mi stavo abituando anche ad essere chiamato Pedalino… È stato un tempo di nostalgia, ma anche di grande consolazione: è importante non sentirsi soli quando si è tristi. Anche per un gatto.
C’è stato un giorno in cui sono arrivato presto a San Saba. L’ufficio MEG non era ancora aperto, così mi sono infilato in cappella. È bella la cappellina del MEG: semplice, raccolta, in penombra, con un piccolo tabernacolo di legno e un grande, bellissimo crocifisso davanti al quale, ho sentito dire, negli anni hanno avuto modo di pregare a lungo tanti ragazzi e tante ragazze. Ho pensato di aspettare lì… E mentre, nel silenzio, fissavo la fiammella che illuminava il Santissimo, ho sentito una voce, che non era quella del mio amico, ma che si rivolgeva a me con la stessa tenera dolcezza: “Benarrivato Socrate!”.
